“Mediante l’elevazione interiore
e la padronanza di sé, il saggio
edifichi un’isola che l’alluvione
non possa sommergere.â€
(Buddha)
Bisogna persuadersi che costruire
con la pittura un universo “altroâ€, distante dagli accidenti moderni e dalle
storture che assediano la società odierna, è prima di tutto una scelta, una
necessità che sarebbe fin troppo semplice rubricare sotto l’etichetta
dell’escapismo. Se è vero, come scriveva Alberto Savinio nel suo Hermafrodito che “quello che chiamiamo
la modernizzazione della vita, non è che una continua e sempre più grande
complicazione demoniacaâ€, allora possiamo intendere come la scelta di Ciro Palumbo rifletta innanzitutto un profondo desiderio
di ricostruzione del mondo ab origine.
D’altra parte, il ritorno alle
radici del pensiero visivo occidentale, all’età aurea dei miti, è un tracciato
assai battuto nell’arte fin da tempi remoti. La nostalgia non è databile alla
fine dell’Impero romano d’occidente perché esisteva già nei poemi omerici e,
certamente, nell’epopea sumerica del Gilgamesh
e in quella accadico-babilonese dell’Enûma Eliš. Tutti i miti sono fondati sulla nostalgia e sulla
perdita di una condizione di supposta felicità (e completezza) iniziale. Tant’è
che, risalendo a tempi più recenti, ciò che lo storico dell’arte austriaco Hans
Sedlmayr chiamava “perdita del centroâ€, si è rivelato essere un irresistibile
motore narrativo. Soprattutto nell’arte post-avanguardista del secolo breve.
La Metafisica di De Chirico e Savinio, i Valori
plastici di Carrà e Morandi, il Realismo magico di Donghi e Casorati, il
Novecento con le sue bulimiche dilatazioni e una parte della Nuova OggettivitÃ
tedesca, ma anche del Surrealismo di Dalì, Magritte e Picabia testimoniano come
la nostalgia e il senso di perdita abbiano generato, almeno sul piano dei
linguaggi pittorici, un inesorabile bisogno di ricostruzione.
Eppure, il cosiddetto Rappel a l’ordre non
dissolveva le ombre della catastrofe, né escludeva di alimentare l’impulso
dubitativo della figurazione con il colpo di spugna di un classicismo di
maniera. Già la parnassiana Invitation au voyage di Baudelaire, con i
suoi versi languidi (Laggiù tutto è ordine, bellezza, calma e voluttà ),
escludeva la possibilità di un ritorno concreto, rinverdendo, piuttosto, il
sogno di un’impossibile Arcadia.
Ciro Palumbo si alimenta, per sua stessa
ammissione, ai giacimenti nostalgici e immaginifici di certo Novecento, non
solo perché da lì provengono, attraverso gli antri carsici del simbolismo (Max
Klinger e Arnold Böcklin), le prime evidenze di una necessità ricostruttiva, ma anche perché in
essi fermentano i germi di un modo nuovo di concepire la classicità e il mito.
Un modo che la metafisica di De Chirico e Savinio aveva inaugurato e che, un
secolo dopo, la pittura di Ciro Palumbo avrebbe saputo miscelare con altre
lezioni, fabbricando un proprio originale e personalissimo catalogo di
ossessioni visive.
Infatti, se è vero che qua e là , nelle tele
dell’artista torinese baluginano i fantasmi metafisici dei due fratelli (si
vedano, ad esempio certi colorati ninnoli di Savinio e certe meridiane, quasi
vespertine, luci di De Chirico), è però inequivocabile che le sospensioni aeree
e le curiose associazioni visive siano il portato di un’abilità combinatoria
tutta contemporanea, capace di saturare l’immaginario classico con l’aggiunta
d’inedite invenzioni iconografiche e, soprattutto, con la costruzione di uno
spazio che sembra scartare le regole della fisica classica, scivolando verso la
dimensione quantistica. Uno spazio, appunto, che l’artista concepisce come
cosmo pneumatico, universo anti-gravitazionale in cui far galleggiare i sintagmi
(o forse dovremmo dire i feticci) del suo alfabeto pittorico.
E d’immagini
ricorsive, infatti, è costellato tutto l’armamentario iconico di Palumbo: dai
natanti lignei, con i loro scafi effigiati d’insegne oftalmiche alle reliquie di
antiche architetture templari; dalle torri sugli alti dirupi alle fluttuanti
megattere, fino agli statuari viatori bendati, ultime vestigia dell’umano.
Ma è,
anzitutto l’isola, con la sua forma chiusa da alte mura di pietra, a stringere
gli svettanti cipressi, a governare l’immaginifico iperuranio di Palumbo. Un
isolotto, poco più di uno scoglio, in cui si coagulano, come precipitate dalle
memorie di Böcklin, non solo le forme dei faraglioni di Capri e del fiorentino Cimitero
degli inglesi - cui si dice si fosse ispirato il grande artista svizzero -, ma,
in generale, quelle di tante isole del Mediterraneo, dalla greca Pontikonisi alla
montenegrina San Giorgio presso le Bocche di Cattaro.
L’isola di
Ciro Palumbo è allegoria del ritiro, di quella solitudine aurea che, secondo
Savinio è la nostra nobiltà e la nostra gioia, ma è, nello stesso tempo,
allusione all’esperienza del transito (Homo viator) e
dell’attraversamento (la barca).
Pur nella
sua natura esplorativa, il viaggio segue la traiettoria di un difficile
ritorno, sospinto dal desiderio nostalgico di una dimora, sia essa reale o
immaginaria. “È la nostalgiaâ€, scriveva Arthur Schnitzler, “a nutrire la nostra
anima, non l’appagamento; e il senso della nostra vita è il cammino, non la
metaâ€. Ed è per questa ragione che l’isola di Palumbo, nella sua mutevole,
eppur distinguibilissima morfologia, sembra sfuggire a ogni tentativo di
localizzazione, muovendosi lungo coordinate sconosciute tra le acque di una
geografia ideale che solo presumibilmente coincide con il Mare nostrum
degli antichi. Inoltre, essendo un’entità talattica, che si sorregge sull’instabilitÃ
dei flutti, un’isola può sempre sparire. “Per ogni isolaâ€, scriveva, infatti,
Manlio Sgalambro, “vale la metafora della nave: vi incombe il naufragioâ€.[1]
Tutta la
pittura di Palumbo è pervasa da un sentimento d’insularità , in cui la seduzione
della solitudine e l’amor di clausura (l’isola angusta e la vetta impervia) s’incrociano
con l’inquietudine nomadica e il desiderio d’espatrio (la nave e la
mongolfiera). E questa sorta di solitudine mobile, levitativa, somiglia alle
pietre che volteggiano, come meteoriti siderali, nello spazio terracqueo delle
sue tele.
In Palumbo
prevale l’acribia del pittore classico, ma senza il ricorso al nitore mortuario
dei puristi. Egli lascia, talvolta, in evidenza le tracce del suo costrutto
espressivo per palesare la natura fondamentalmente mentale e intellettuale
della sua pittura.
Qui e là ,
soprattutto nelle carte e in certi olii, riconosciamo, infatti, la traccia gestuale
e il fragrante deposito dei pigmenti, gocciolante sulle superfici come per
l’effetto di un dilavamento del colore. Questo significa che nelle tele di
Palumbo la dimensione temporale non è del tutto sospesa. Gli eventi accadono
secondo un ritmo asincrono, non lineare, che si avvicina alla simultaneitÃ
tanto cara a Jung. Come notava Stefania Bison, “è un orologio che non misura il
rincorrersi delle ore della giornata, ma che segue il tempo della memoria; e
nella memoria non esistono regole precise, non esiste un prima o un dopo, un
troppo presto o un troppo tardiâ€.[2]
Ma questo
tempo della memoria è una funzione della creazione, più che della
registrazione. Se c’è un vissuto, esso è filtrato dalla lente
dell’immaginazione e sublimato in una pletora di nuovi archetipi che non
obbediscono più al sostrato esperienziale dell’artista, diventando, piuttosto,
materia per una fabula collettiva, per un’allegoria in cui ogni
viandante (e ogni migrante) può riconoscersi.
C’è un’intenzione nella pittura
di Ciro Palumbo, potremmo dire un progetto, che si esplicita nella costruzione
di una visione mobile e instabile del mondo ideale. Una visione che
sostanzialmente riconosce che nel proprio iperuranio pittorico, così come nel
mondo reale e fenomenico, non esistono centri di gravità permanenti e che la
ragione, come credeva Immanuel Kant, “è un’isola piccolissima nell’oceano
dell’irrazionaleâ€. Un’isola che è insieme buen
retiro e vascello pericolosamente proiettato verso un orizzonte ignoto.
[1] Manlio Sgalambro, Teoria della Sicilia, prologo dell’opera
lirica Il cavaliere dell’intelletto,
in Guido Guidi Guerrera, Battiato:
Another link, Verdechiaro edizioni, Baiso (RE), 2006, p. 117.
[2] Stefania Bison, La placida natura antica, in AA.VV., Il volo del poeta visionario, Sala del
colonnato, Palazzo della città Metropolitana di Bari, 7-23 ottobre 2016, FMR
Franco Maria Ricci- UTET, Torino, p. 107.
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