C’è un luogo
sconosciuto in un tempo indeterminato, ed è “dove succede†l’opera di Ciro
Palumbo, che costringe chi la scruta proprio lì. Lì è da sempre e per sempre.
René Guenon, che prima di diventare il più celebre esoterista del Novecento è
stato (e ha continuato a essere) un grande matematico, ha lavorato sui concetti
di cattivo e buon infinito. Nella sua rivolta invero molto attuale,
attualissima, contro un Occidente in crisi ormai da secoli, sottolineava come
nel cattivo infinito ci sia l’abolizione dell’idea qualitativa della realtà , e
quindi di qualsivoglia, pur pallida idea di Verità . È successo (e continua a succedere sempre di più) che alla fine del
Rinascimento (per stabilire un luogo della storia convenzionale ma
approssimativamente accettabile) si è persa ogni idea di Unità del mondo.
Nel campo
del pensiero, dalla filosofia alle arti tutti, un relativismo sempre più
esasperato ha come smembrato lo scibile del sapere sotto l’egida della
produzione tecnologica, creando così una massa oggi dominante di tecnici
specializzati in campi della conoscenza sempre più parziali, in una catena di
montaggio del reale di cui non si sa e non si vuol sapere il senso ma che pure
tenacemente sussiste, sfiatata, in una ormai cristallizzata sensazione
collettiva di fine che pure non smette di accompagnarci (“La tragedia è ciò che
continua a finireâ€, diceva con efficacia di sintesi Hegel in una delle sue
conferenza sulla filosofia della Storia). Il cattivo infinito ribadisce dunque
il suo essere “aumentabile†attraverso una falsificazione della realtà che
potremmo definire la “realtà aumentata†in cui ci troviamo. Allo stesso modo
ogni nozione di metafisica si è ormai da tempo scollegata da ciò che per sua
specificità precede e fonda, ossia la fisica, per divenire una sorta di Araba
Fenice che (non) risorge dalle sue ceneri monca e incomprensibile ai più. Di
tutto questo processo storico Ciro Palumbo codifica l’essenza con densa
pacatezza, sottraendosi a un gioco al massacro epistemologico fermandosi
sull’orlo del burrone di un (cattivo) infinito contemporaneo e indicandone
l’imminenza della caduta che pure, nell’altrove a cui accennavamo all’inizio,
non è data.
Il mito da
cui parte e attorno al quale si sviluppa l’opera di Palumbo e contemporaneo,
come non possono che essere i miti. Laconicamente, Roland Barthes sosteneva che
“il mito è una parolaâ€, lasciando a questa apparentemente sibillina (in realtÃ
precisa al punto da diventare disarmante) Â evidenza il peso che la surdeterminazione (direbbe Althusser)
del mito ci costringe a sostenere (o a ignorare, come sempre più facciamo). La
parola del mito è parola vivente, è non credo vi sia alcuna blasfemia a trovare
in essa la fondazione del Vangelo più informato di cultura classica, e quindi
platonica e aristotelica: quello di Giovanni. Il Logos che era al principio è
quello che continua a essere nell’unità dell’essere stesso. Per questo
“altroveâ€, un luogo sconosciuto in un tempo indeterminato, appunto, che mai ci
abbandona e sempre al principio ci riporta. Il grande filosofo e mistico Ramon
Panikkar ha coniato, per la sua opera di pontefice (in senso etimologico, e
quindi tradizionale nell’accezione dello stesso Guenon) tra Oriente e
Occidente, il termine “tempiternità â€, insistendovi a più riprese nella sua
monumentale opera quale fondante l’esperienza umana tutta, laddove questa non
si rinneghi. La tempiternità altro non è che l’eterno nel tempo, come suo inveramento ontologico. Di nuovo, un infinito non
manipolabile, ma immediato, ma adesso. Immaginare l’eternità come un “dopoâ€
significa negarne l’essenza, snaturarne il senso. L’infinito è o non è, e se è
non può che essere sempre. È dunque una ritrovata coscienza umanistica che
coglie eterno e infinito, e lo fa nella furia degli eventi, nel sempre
cangiante presente.
L’arte si
trova oggi di fronte a un bivio ineluttabile: accettare il proprio snaturamento
imposto da un mercato che si è reso finanza che si è resa falsificazione
assoluta (dunque ad ogni livello: da quello ecologico a quello del pensiero
speculativo; da quello politico a quello epistemologico) oppure cimentarsi in
una lotta sempre più sottile contro la propria riduzione a (falso) feticcio
merceologico, ribadendo la propria, ogni giorno più inattuale, funzione di
viatico verso una ricerca in cui artista e pubblico si fanno complici e
compagni di viaggio. Attingendo da un’immagine dalla cultura popolare, ossia
dalla “Torre†(o “Casa di Dio†dei Tarocchi), trasposizione astorica del mito della
Torre di Babele, potremmo dire che Palumbo “blocca†la caduta della nostra
Babele e la trasforma, alchemicamente, in altro. Un altro che ci accompagna
sempre se gli prestiamo attenzione e cura.
I “pezzi di
mito†di Palumbo sono quanto del mito oggi permane, e dato che non c’è “mitoâ€,
come abbiamo visto, che non sia eterno, eterno adesso, il mito di Palumbo è
modernissimo e attuale, maceria parlante della sua rigenerazione sospesa in un
sempre immanente. “Sospesa†specialmente: molte delle sue opere colgono il peso
del rapporto tra gravità della massa e leggerezza dell’attimo, facendosi cifra
sottesa al suo lavoro e peculiarità dai mille volti ma sempre riscontrabile.
La realtà di
Palumbo galleggia serena nell’impossibile che il più grande psicanalista (ma
direi piuttosto il più grande degli ultimi umanisti, e dei più fraintesi, va da
sé) di fine Novecento, Jacques Lacan, ha identificato in toto con il reale: la
celeberrima asserzione lacaniana “il reale è l’impossibile†si riappacifica nei
cuori di Palumbo, e diventa “nostro pane quotidiano†nella potenza a strati
multipli delle evocazioni mitologiche in cui Palumbo ci lascia “soli†quando
dominati da un horror vacui che le sue opere riempiono piuttosto di fuga
immaginarie. Torniamo allora subito a Lacan, ma anche al Rinascimento e in
particolare a Tommaso Campanella: L’immaginazione è, in Lacan (sulla scorta,
più volte citata, dello stesso Sant’Agostino) ciò che nell’intreccio con il
simbolico e il reale (e dunque “l’impossibileâ€, abbiamo visto) e nell’uomo
prima che la l’idea moderna di “scienza†si affermasse (da Bacone a Cartesio,
diciamo, per farsi poi luogo comune fino ad oggi, pur nel principio di
reversibilità a cui le ultime scoperte di fisica quantistica ci stanno
inducendo) forma la nostra “visione†del mondo, fondandone innanzitutto le
categorie trascendentali di spazio e di tempo. Se il cosiddetto “uomo comuneâ€
subisce tutto questo (e lo subisce sempre di più, in una coazione a non capire
imposta dai vertice del sistema globale in cui siamo, per ora, ancora immersi),
l’artista, l’artista vero, ne forgia esteriormente l’estetica attraverso la
sintesi del suo sapere e del suo operare. È, oggi, un’operazione di grande
libertà e arbitrio (potremmo definirlo un atto “prometeicoâ€, per tornare a un oggetto
dell’investigazione di Palumbo), dove al fuoco rubato agli Dei si sostituisce
un sapere rubato a chi vuole ridurci all’ignoranza sistemica.
La macina
fluttuante del mulino di Palumbo si sottrae così fin da subito dai pur evidenti
luoghi d’origine culturali e diventa attuale movente di un’eternità rimessa al
proprio posto attraverso le operazioni di deformazione rettificante del gioco
di specchi in cui viviamo, e che i veri artisti hanno sempre saputo e dovuto
compiere. Per questo ritengo che l’opera di Palumbo vada in qualche modo
sottratta alle sue appositamente fuorvianti, per chi ne è consapevole, massicce
radici nella tradizione classica, cinquecentesca e novecentesca fino a essere
vista e vissuta “pura†e dunque con gli occhi dii un bambino, come fotogrammi
di un “cartone animato†che è più vero del vero in quanto, nell’incanto e nella
meraviglia come esperienze non corrotte
da pensieri associativi se non da ovvie quanto perniciose valutazioni storiche
(di storia dell’arte) ci restituiscono un sentimento della nostra presenza
sulla terra carica di quel mistero senza il quale tutto è semplicemente
consumo. Ciò si presta molto agli scottanti “novissimi†(in senso biblico ma se
vogliamo anche in rapporto alle ultime e controverse, volutamente, consciamente
controverse avanguardie dello scorso secolo) in cui un’intera civiltà fondata
sul consumo si sta, con volutissimo gioco di parole, consumando. Come la
nottola di Minerva del già citato grande filosofo tedesco, il lavoro di Ciro
Palumbo arriva in un “dopo†di ascendenza biblica (quell’oggi è già domani†che
ritroviamo nei Salmi) da tutti in
qualche modo percepito ma dall’artista compiutamente espresso. Un “dopo†antico
(“Il classico è il nuovo che resta nuovoâ€, diceva Ezra Pound) e riveduto
(veduto di nuovo) in quanto incessantemente nuovo.
Antri, cuori
e dirupi tra macerie d’ombra ci riportano al suono di poemi sussurrati da
divinità che ci appaiono come fantasmi in un rovesciamento in cui noi, come nel
celebre film The Others di Alejandro Amenábar, siamo forse i veri fantasmi mentre loro, le
divinità , sono piuttosto gli esseri reali che, “medium†Palumbo, cercano di
riportarci al nostro specifico umano perduto.
Fotogrammi di luce (l’etimologia del termine “fotogramma†è costruita
proprio da un’idea di elaborazione tecnica della luce) e della sua
scomposizione prismatica nei colori (l’elemento cromatico, nel lavoro di
Palumbo come nelle fasi dei lavorazione dell’Opus alchemica, è tutt’altro che meramente decorativa) che ne sono,
di nuovo, paradossale ombra. Ma non si dà ombra senza luce.
Ciro Palumbo 2017 All rights reserved.