Conosci innanzitutto la quadruplice radice
di tutte le cose: Zeus è il fuoco luminoso,
Era madre della vita, e poi Idoneo,
Nesti infine, alle cui sorgenti i mortali bevono…
Con queste parole il filosofo greco Empedocle, vissuto in Sicilia nel 450 avanti Cristo, parla per la prima volta dei quattro elementi - fuoco, aria, terra e acqua – definendoli con il termine rizòmata, cioè radici. Per Empedocle, Zeus, il dio della luce celeste è il Fuoco, Era, la sposa di Zeus è l’Aria, Edoneo, il dio degli inferi, la Terra, e infine Nesti-Persefone, l’Acqua.
L’unione di queste radici determina la nascita di ogni cosa, e la loro morte. Sono tuttavia nascite e morti solo apparenti, in quanto l’Essere non si crea e non si distrugge, ma è in continua trasformazione. L’aggregazione e la disgregazione delle radici sono determinate dalle due forze cosmiche e divine, Amore e Discordia, secondo un processo ciclico eterno. Il momento iniziale è lo Sfero, il regno dove predomina l’Amore, e dove gli elementi sono riuniti in un tutto omogeneo. La Discordia inizia allora una progressiva separazione che tende al Caos. A questo punto il ciclo riprende grazie a un nuovo intervento dell’Amore che riporta il mondo alla condizione intermedia, dove le due forze cosmiche si trovano in un equilibrio che dà nuovamente vita al mondo.
Fuoco, Aria, Terra e Acqua sono i mattoni della nostra vita, componenti essenziali e immutabili di tutto ciò che ci circonda, e rifugio sicuro nella precarietà di un mondo sgretolato dalla Discordia.
Fuoco, Aria, Terra e Acqua sono i mattoni che compongono le opere di Ciro Palumbo. E sono la sostanza dei sogni che il pittore instancabilmente insegue, in un vagare incessante per mari inquieti, sotto cieli perturbati, su isole sperdute, in città abbandonate.
DI FUOCO…
Guardate il dio incatenato e doloroso, il nemico di Zeus, il detestato da tutti gli dei, perché amò i mortali oltre misura.
(Prometeo incatenato, Eschilo)
Un Prometeo silente, rappresentato con la testa reclinata e incatenato con deboli legacci di cuoio, indica con la mano il fuoco deposto su un’isola: è a questa antica e assai frequentata iconografia, che Ciro Palumbo affida la sua raffigurazione del Fuoco.
Prometeo è il titano a cui Zeus ha affidato il compito di forgiare l’uomo, modellandolo con il fango. Ma all’uomo Prometeo ha donato anche le doti dell’intelligenza e della memoria, assicurandosi così le ire di Zeus, che considera i doni del titano troppo pericolosi. Prometeo ha infine rubato il fuoco nell’Olimpo dal carro di Elio, per regalarlo all’uomo come simbolo di vita e di conoscenza. Il padre degli dei fa incatenare Prometeo, nudo, con lacci d’acciaio sulla zona più alta ed esposta alle intemperie del Caucaso, con una colonna conficcata nel corpo. Un’aquila, dopo avergli squarciato il petto, gli dilania il fegato, che ricresce durante la notte. Una condanna destinata a perpetrarsi in eterno. Molte opere d’arte hanno ripreso il mito di Prometeo, dagli antichi vasi greci antichi, a Gustave Moreau, a Peter Paul Rubens, raffigurando drammaticamente la sua tortura.
Ma Ciro Palumbo nelle sue due opere, ha scelto di non raccontare la sofferenza: il suo Prometeo è legato con lacci di cuoio che non ne costringono le membra, e nessuna aquila dilania il suo fegato. Il viso del titano non lascia intravedere il dolore, ma una pacata e silenziosa rassegnazione alla propria condizione di solitudine. Prometeo ha le sembianze plastiche di una statua di reminiscenza classica, ora immobile e immerso nel mare, ora colto nel tentativo di liberarsi. I dipinti di Palumbo sono ricchi di riferimenti colti e mai casuali: il libro è metafora della conoscenza, l’uovo è l’ancestrale simbolo della vita. L’osservatore attento si chiederà il significato dei due vivaci saltimbanchi che fanno le capriole alle spalle di Prometeo: si tratta di un omaggio ai disegni di Luca Cambiaso, pittore genovese del Cinquecento. Cambiaso era un sapiente disegnatore che usava bozzetti stereometrici, fatti cioè di cubi e parallelepipedi, per progettare le sue figure. La suggestione di questi disegni ha dato a Palumbo l’idea di aggiungerli al suo repertorio di figurine ludiche che spesso appaiono nelle sue composizioni.
La contrapposizione tra la fatica fisica di Prometeo, che cerca di liberarsi, e la leggiadria degli omini colorati, è straniante, e aggiunge un tocco di surrealtà a una visione assai prossima a quella della pittura metafisica.
DI ARIA
Gli astri d'intorno alla leggiadra luna
nascondono l'immagine lucente,
quando piena più risplende, bianca
sopra la terra.
(Saffo, Plenilunio)
Non sono mai tersi i cieli di Palumbo. Sono solcati, striati e ombreggiati da nuvole, fissate sulla tela con sapiente precisione; leggere e pesanti, frastagliate o compatte, morbide e sfumate, opache o trasparenti, quelle bianche del cielo assolato o quelle nere portatrici di pioggia e di oscuri presagi. La contemplazione incantata del cielo in tutte le possibili variabili formali e cromatiche, è parte ineludibile nel linguaggio pittorico di Ciro Palumbo. Nascosta dalle nuvole o colta nella sua siderale bellezza, anche la luna fa spesso capolino nelle tele del pittore torinese. Non è una luna romantica e letteraria, ma una luna sognata e pensata, che guida e allo stesso tempo disperde lo sguardo di chi la osserva. La grande signora del cielo dialoga con gli uomini, diventa scrigno dei loro sogni e pensieri più segreti, spunta dietro la vegetazione di un’isola, su un palcoscenico teatrale o nelle stanze di un circo. La lasciamo ora immobile e silenziosa, e la ritroviamo giocosa e saltellante nelle sue diverse fasi crescenti e calanti. E poi le stelle… In questi dipinti non stanno solo in cielo. L’artista sembra volerle spogliare della loro realtà di corpi celesti e, trasportandole sui tendoni del circo, tra i rami di un cipresso, le trasforma in messaggeri in viaggio tra cielo e terra. A un primo sguardo nelle tele di Palumbo sembra regnare un assoluto senso di immobilità, ma se ci soffermiamo a osservare le punte degli alberi che si ergono solitari sulle sue isole-scoglio, ci accorgiamo che sono mosse e piegate da un vento leggero, quasi impercettibile. Ed è lo stesso vento che increspa la superficie del mare e che sospinge in cielo barchette cariche di balocchi, portandole via verso un nuovo viaggio.
DI TERRA
Mi accingo a cantare alla Terra, Madre universale dalle solide fondamenta,
vecchia venerabile, che nutre quanto si trova sulla superficie di essa.
Da te procede la fecondità e la fertilità, o Sovrana!
e da te proviene dare e togliere la vita agli uomini mortali...
(Inno alla Terra, VI secolo a.C.)
Stanze vuote con finestre che si affacciano sul mare, interni geometrici, edifici di ellenistica memoria; tendoni da circo, sculture marmoree che da un momento all’altro potrebbero prendere vita e allontanarsi verso altri orizzonti; isole-scogli ferme nel mare oppure volanti su un’imbarcazione; ruderi e colonne squadrate, ma anche valigie piene di sogni, violini e violoncelli, balocchi, palloni e mattoncini giocattolo usciti da una scatola di costruzioni. Questa è la terra di Ciro Palumbo. Una terra silenziosa e a tratti irreale, un non-luogo che allude a presenze e assenze senza ritorno. Inutile cercare coordinate spaziali o temporali, non le troveremo mai. È una terra che esiste solo in sogno, una terra dove tutto si regge su un equilibrio tanto perfetto, quanto instabile. Dov’è l’uomo? La sua assenza è carica di significato, eppure da qualche parte è alluso: si nasconde nei circhi che galleggiano nel mare, è al timone delle barche che prendono il largo, ha appena abbandonato su una spiaggia i suoi strumenti musicali e i giocattoli della sua infanzia. Se Ciro Palumbo rappresentasse l’uomo, incrinerebbe la sottile armonia di forme e colori delle sue opere. Sono microcosmi perfetti e conclusi, che se fossero abitati de creature umane riprodurrebbero semplicemente il vero riconoscibile. Come diceva Paul Klee, la vera arte non deve riprodurre il visibile, ma crearlo.
DI ACQUA
Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima
è fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio e quant’altro
è dolce, salata, salmastra,
è luogo presso cui ci si ferma e su cui ci si viaggia
è piacere e paura, nemica ed amica
è confine ed infinito
è cambiamento e immutabilità ricordo ed oblio.
(Eraclito, Frammento)
Nelle tele di Ciro Palumbo, l’acqua è rappresentata sempre sotto forma di mare. Non è casuale questa scelta, perché per l’artista nulla più del mare rappresenta l’idea del viaggio. Non importa che sia un nostos, il travagliato viaggio di ritorno di Ulisse, o una partenza, non importa quanto sia lungo, e dove porti. Il viaggio è per Palumbo metafora di conoscenza, della ricerca di un altrove indefinito ma sognato. Le insenature sabbiose, su cui sono abbandonati palloni colorati e balocchi, o su cui si affacciano teatrini e tendoni del circo, sono punti di approdo o di partenza, luoghi in cui fermarsi oppure dai quali ripartire. Le isole rocciose che il navigatore incontra nel suo viaggio sono forse miraggi, perchè non hanno sponde a cui attraccare, spiagge dove passare la notte. Una sola osservazione: il mare di Ciro Palumbo non è mai in tempesta; la sua superficie increspata è silenziosa, le sue onde si infrangono dolcemente sulle rive. Non è un mare contrario all’uomo, non è un ostacolo al suo viaggio, ma fedele compagno nella ricerca della conoscenza e delle radici ancestrali.
SONO LE SOSTANZE DEI SOGNI
Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni
(Shakespeare, La tempesta)
Di fuoco, di aria, di terra e di acqua sono le sostanze dei sogni di Ciro Palumbo. E sono questi i quattro elementi con cui l’artista costruisce il suo universo pittorico. Un mondo meditato, e mai lasciato in balia alla casualità, frutto di una mano che ben conosce il mestiere della tavolozza e l’alchimia degli impasti cromatici. I suoi quadri rievocano la classicità in un assemblaggio apparentemente incongruo nei suoi elementi compositivi i quali, nel loro insieme, diventano tappe significative di una narrazione coerente. L’artista torinese ci regala a piene mani i suoi sogni a colori, ce li consegna, li condivide con noi. Ci invita a seguirlo nei suoi silenzi metafisici, a spingerci al di là delle Colonne d’Ercole, ad abbandonare la quotidianità, per andare a rincorrere i nostri sogni.
Vieni a placarmi questo caos del tempo come allora, delizia della Musa
tu che concilii gli elementi tutti! Dacci la pace coi tranquilli accordi
celesti e unisci quel ch’è diviso finché la placida natura antica
fuori del tempo dai fermenti grande, alta e serena si sollevi.
Torna viva bellezza tu nei cuori miseri ed alle mense ospiti, ai templi torna!
(Friedrich Hölderlin)
Messaggi che giungono dall’antichità, che attraversano il presente per essere trasportati nel futuro. Messaggi di armoniosa bellezza, messaggi talvolta inascoltati, messaggi mai pronunciati che restano imbrigliati nello spazio eterno che divide l’anima dalla parola. L’essenza di questa mostra è racchiusa in due termini: messaggio e antichità. Semplici, ma allo stesso tempo complessi nei loro molteplici significati.
All’osservatore attento non sfuggirà la costante presenza, nelle opere del pittore torinese, dell’antichità e di ciò che la cultura antica ha prodotto: templi, statue marmoree, anfore, vasi. Allo stesso osservatore non passerà inosservata neppure un’assonanza con la pittura metafisica di Giorgio de Chirico e con quella surrealista di Alberto Savinio. Ma a questo punto è giusto procedere per dissonanze, per capire meglio in quale direzione si sta muovendo la pittura di Palumbo. L’atmosfera classicheggiante che respiriamo nelle sue opere non è la stessa che ha ispirato i fratelli de Chirico. Certo la “segreta magia” della linea dell’architettura classica che tanto ha affascinato Giorgio de Chirico, non ha lasciato indifferente neppure il nostro artista. Il dipinto Archeologi realizzato nel 1927 rivela con quale spirito il maestro della Metafisica concepiva la citazione classica: le due figure monumentali che campeggiano all’interno di uno spazio angusto e innaturale, hanno il torace ingombro di colonne, frammenti di paesaggi e di architetture. Quello che queste due figure rivelano è l’immagine quasi onirica di una Grecia ridotta a frammenti e rovine, e percorsa dallo spirito nostalgico di discendenza romantica e böckliniana. L’impressione è che le architetture abbiano nella pittura di Giorgio de Chirico una funzione di quinta scenografica, quasi uno schermo volto a sottolineare la costante tensione tra l’oggetto e lo spazio, tra il pieno e il vuoto. Anche nella pittura di Savinio ricorrono scene e frammenti della Grecia classica. Passati al vaglio dalla sua acuta ironia, i monumenti della classicità e le antiche figure appaiono bloccati in una visione demitizzante, in accostamenti illogici e volutamente assurdi. Savinio stesso scriveva nel 1919 su Valori Plastici che “il classicismo non è ritorno a forme antecedenti prestabilite e consacrate da un’epoca trascorsa, ma è il raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica, la quale non esclude affatto le novità di espressione, anzi le include, anzi le esige”. E dunque il suo Apollo (1931) ha la parte inferiore del corpo a forma di colonna con tanto di capitello, il torace di uomo e la testa di oca. Una visione onirica, irriverente, di spaesante trasformazione.
Nelle opere di Palumbo l’antichità è parte integrante di una narrazione atemporale. I suoi templi non sono mai “rovine” si ergono intatti nella loro maestosità, le colonne non sono segnate e scalfite dal tempo, così come le presenze scultoree sono levigate nel loro biancore marmoreo. Un mondo integro che tuttavia l’artista ha sottratto al suo contesto naturale, per trasportarlo in un altrove al quale non riusciamo a dare una collocazione. Palumbo gioca dunque di voluti spaesamenti, creando un’atmosfera “metafisica” in cui spazio e tempo vengono annullati, in cui regna un ordine che è agli antipodi di ogni confusione. Le sue opere sono palcoscenici enigmatici e misteriosi, sottratti al flusso normale della vita, che lasciano l’osservatore in balia di domande e di un senso di inquieto disorientamento.
In tale senso la pittura di Palumbo è riconducibile alla corrente metafisica. È lo stesso Giorgio de Chirico – nel suo scritto del 1927 Statues, meubles et généraux – a chiarire in modo semplice e immediato il concetto di straniamento: “La statua eretta su di un palazzo o un tempio, ovvero al centro di un giardino o di una pubblica piazza, ci si presenta sotto diversi aspetti metafisici. Nel caso del palazzo, dove si staglia contro il cielo meridionale, essa ha qualcosa di omerico, un piacere severo e distaccato, con una punta di malinconia. Sulla piazza ha sempre un aspetto eccezionale, soprattutto se poggia su un piedestallo basso, in modo che sembri confondersi con la folla dei passanti, coinvolta nel ritmo della vita cittadina di tutti i giorni. Nel museo assume un aspetto ancora differente: ci colpisce per quel che ha di irreale”.
Dunque se il busto di Ermes (Il viaggio di Ermes) non fosse appoggiato su un’isola rocciosa volante, davanti a un pallone rosso con stelle gialle, ma fosse esposto nella sala di un museo, non avrebbe sull’osservatore lo stesso impatto: in quel caso sarebbe la testimonianza delle abili mani di un antico maestro, e verrebbe guardato per la sua gradevolezza estetica. In questo contesto, invece, lo osserviamo chiedendoci il perché di questo accostamento incongruo. Non c’è sicuramente in Palumbo la volontà di smitizzare il passato spogliandolo della sua sacralità. Questa scelta, senza dubbio volutamente azzardata, conferisce al contrario maggior importanza al busto marmoreo, che diventa punto focale della composizione. Forse in un museo l’avremmo osservato a gran velocità passando da una sala all’altra, qui fatichiamo a staccare lo sguardo. Ci soffermiamo a guardare il gioco di chiaroscuri della superficie, la morbidezza dei capelli che si appoggiano sulle spalle, il profilo altero e pensoso che si cela sotto il cappello alato. La volontà di destare stupore avvicina dunque l’artista alla concezione pittorica di Savinio: diverse sono naturalmente le modalità espressive – figlie di contesti culturali e sociali differenti – ma il fine è senza dubbio quello di ribaltare una logica comune che vorrebbe in un caso una scultura esposta in un museo, e nell’altro una dama con la testa di donna e non di oca.
La soppressione del senso logico che Palumbo mette in atto nelle sue tele ottiene quindi il risultato di spiazzarci: di fronte alle sue opere non ci riconosciamo più, e neppure riusciamo del tutto a capire quale siano le leggi segrete che governano il suo mondo. Eppure è un ignoto che non ci spaventa. Il suo è un tempo sospeso in cui passato e presente convivono, e che suscita stati d’animo contrastanti in bilico tra la nostalgia di ciò che accaduto e il presagio di qualcosa di cui ci è ancora negata la conoscenza. E parlando del tempo è curiosa la presenza di un orologio nella tela La stanza del messaggero, che riesce a restare in perfetto equilibrio nonostante sia sostenuto solo dal vuoto. È un orologio che non misura il rincorrersi delle ore della giornata, ma che segue il tempo della memoria; e nella memoria non esistono regole precise, non esiste un prima o un dopo, un troppo presto o un troppo tardi. Il tempo della memoria è dilatato, e come tale può essere scandito solo da un orologio fermo da sempre sul tetto di una casa. È interessante notare che all’indeterminatezza temporale che abita le opere dell’artista non si accompagna l’immobilità. Gli impaginati pittorici sono sovente strutturati su piani compositivi volutamente diversi, dove moto e staticità si contrappongono creando un insieme armonioso. Esempio significativo è la composizione Sono quello che voi siete: la figura statuaria di Ermes occupa visivamente un primo piano immobile. La fissità della scena contribuisce a sottolineare l’immutata e incrollabile bellezza del figlio di Zeus; alle sue spalle, oltre la coltre rossa di un ipotetico sipario teatrale, si apre un cielo solcato da nubi e battuto da un vento che trasporta in aria edifici e balocchi colorati. La staticità della pittura metafisica, che evoca tersi cieli atonali e luci calibrate, viene dunque abbandonata a favore di una cifra espressiva ricca di sfumature di colore, giocata con raffinatezza sui contrasti tonali e su studiati passaggi tra luci e ombre. Assai interessante la costruzione di Composizione con ali, che si regge su una struttura complessa, quasi un’opera nell’opera. All’interno di una scatola rossa, appoggiata su una terrazza che affaccia su un mare increspato, campeggia un piccolo edificio, che racchiude un cielo stellato. Palumbo forza la bidimensionalità della tela per aprire nuovi spazi, per suggerire la presenza di un altrove in cui tutto è possibile. È quasi un suggerimento a non fermarsi su quello che si vede, a oltrepassare il velo di Maya per arrivare a carpire l’essenza della realtà. Le stesse ali, costrette all’interno di una scatola scura, sono il simbolo della leggerezza, del collegamento tra cielo e terra e della possibilità di abbandonare il consueto, per volare verso un mondo solo sognato.
E l’uomo? Nelle forti e delicate pagine pittoriche di Ciro Palumbo, l’uomo si identifica – fino a sovrapporsi – con le figure mitologiche dell’antichità. Dunque ora è Ermes, ora è Prometeo. E in entrambi i casi è l’aspetto più intimo e travagliato, quello portatore di infinite e molteplici sfaccettature, che l’artista torinese vuole indagare.
Nell’inno omerico Ermes viene invocato come dio dalle molte risorse, gentilmente astuto, predone, guida di mandrie, apportatore di sogni, osservatore notturno, ladro ai cancelli, ma era anche e soprattutto il messaggero prescelto da Zeus per portare a compimento delicate missioni. Rispetto all’iconografia classica, che lo voleva dapprima raffigurato come un uomo anziano e l’aspetto più intimo di Ermes. Il dio greco diventa lo specchio dell’uomo che racchiude in sé le molteplici sfaccettature della natura umana, sede di atavici travagli e dell’eterna lotta fra la propensione al bene o al male. È un Ermes nuovo, figlio dei nostri tempi, tormentato e chinato su se stesso, bendato perchè cieco come gli uomini, o forse reso cieco dall’incomunicabilità con gli uomini, colto nel gesto affranto di invocare un cielo solcato da spesse nubi nere, portatrici di funesti presagi. Anche nel ciclo pittorico dedicato a Prometeo, Ciro Palumbo si distacca coraggiosamente da secoli di rappresentazione e ci pone davanti a un Prometeo diverso, che nulla eredita dalla tradizione iconografica. Le sue pagine pittoriche si presentano spogliate della teatralità e pathos che solitamente ne caratterizzano la figura, non presentando né il dramma del suo castigo senza fine nè il trionfo del ratto del fuoco. È un Prometeo essenzialmente umano a cui è concesso il libero arbitrio e la conseguente capacità di scelta, consapevole della sua colpa e al tempo stesso fiero del prezioso dono fatto agli esseri umani.
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