Con questo ciclo dedicato al tema della Luna – una luna amorevole che si posa su luoghi antichi – Ciro Palumbo sembra dire addio per sempre a quel maestro scomodo (e non solo per lui) che ha nome Giorgio de Chirico, che nel suo percorso d’artista egli ha sempre avvertito come colto riferimento; e se ha certamente superato le influenze di quel padre, ha tuttavia conservato nel suo animo la cultura classica, patrimonio che Giorgio de Chirico aveva ereditato a sua volta da Arnold Böcklin e da Max Klinger. Negli anni della sua formazione, Palumbo ha interrogato il maestro della pittura Metafisica, seguendone il percorso che lo ha condotto alla Grecia antica, agli dei dell’Olimpo, ai Titani, al mare di Omero, alle vestigia di architetture solenni e ormai silenziose, e conservandone i tratti fondamentali, ovvero quei simboli indispensabili che popolano il tempio dell’Arcano inconoscibile. Ha quindi rivisitato quel mondo arcaico con rimandi forse troppo generosi alla speculazione filosofica umanistica e scientifica, e persino all’astrologia.
In questo nuovo ciclo, dedicato alla Luna, il pittore di Torino dimostra di essere ben lontano da qualunque tentazione post romantica e decadente: al contrario il nostro candido satellite si cala sorridente dal cielo, materno e protettivo, in tutta la sua plasticità sferica, per un volo provvisorio e leggero tra l’archeologia della memoria. In composizioni come Dialoghi sotto la luna, L’uomo del futuro, Nelle notti, accade, appaiono intriganti costruzioni di poetica serenità, nell’atmosfera sospesa della ricerca metafisica, su cui sembrano aleggiare avvertimenti di qualcosa di nuovo che sta per accadere, e di altri simboli, oltre a quelli già palesi, che stanno per subentrare nello spazio e nel tempo impossibile della memoria onirica. Sono i sintomi rivelatori di un altrove misterioso e al contempo famigliare, anche presenti nella recente composizione Oltre il mistero, la luce che vorrei definire dipinto di profondità abitata, quella della nostra irrinunciabile libertà interiore, quando nel sogno si popola di immagini sfarzose, di desideri non esaudibili, che solo agli artisti talentuosi è dato di esprimere tramite il colore.
Questa galleria di quadri è una narrazione che non ha un inizio, e che non offre, perché non fa parte della sua filosofia, una conclusione. Ecco quindi che si ritorna al filosofo antico che si interroga, che si concede risposte provvisorie, che cerca laicamente di misurare il mondo con il metro della sua coscienza, sicuro solo di esistere in quanto essere pensante. In questa pittura di Palumbo si legge una sorta di codice morale, espresso in composizioni virtuose, e in un’archeologia mentale che si è sedimentata nella memoria collettiva, formando un calco espressivo ineludibile, dove tutto ritorna ciclicamente, dove tutto si ricrea e nulla si distrugge. Su tutto questo una luna piena sorride complice e protettiva, testimone della nostra storia, luminosa, volatile, governante benevola dello scorrere del tempo, del mutare delle stagioni, dei codici che regolano il moto dell’universo e il divenire del destino. Comunque libera, fuori dagli schemi, ispiratrice dei poeti, dei sapienti, degli innamorati e – perché no? – anche dei funamboli visionari che abitano in un tendone da circo, ospite inatteso nel repertorio di Palumbo, e proiezione rovesciata, nella sua fatuità giocosa, della pietra antica di un teatro greco: l’effetto catartico è sempre lo stesso, e Aristotele può ben transitare sia nella cecità di Edipo, che nei palloncini dei giocolieri.
Questi lavori spingono lo sguardo e la mente entro le complesse visioni di un maestro nel pieno della maturità, premuto dalla nostalgia e da interrogazioni, dove la luna, in primis, poi il cielo e il mare sono le tre dominanti che compongono la sua chiaroveggenza. Guidato da astri misteriosi, non c’è dubbio che egli sia messaggero di una verità metafisica, tuttavia enunciata in piena felicità, e con equilibrio, chiarezza, geometrica sapienza dello spazio. Ciro Palumbo attraverso le sue tele, dove la Metafisica non rinuncia a prendere sotto braccio il Surrealismo, usa il colore come vibrazione dell’anima, che indaga e porta in superficie le suggestive perfettibilità dei toni e dei semitoni, delle atonalità calde che dialogano tra loro. Ricordiamo in questo contesto le sinfonie compositive dei suoi cieli alla soglia della tempesta, a cui fa spesso da contrappunto un mare tormentosamente romantico. Dei maestri del passato ha studiato i passaggi tonali, il dissolversi della luce nell’ombra, le complessità prospettiche. Quando poi immette nei suoi lavori omaggi significativi a Böcklin, o corpi geometrici volanti, o templi dell’antica Grecia, quando si accosta più ad Alberto Savinio che a Giorgio de Chirico, comunque indaga luoghi inediti, chiedendo alla Luna di proteggere i suoi sogni e le visioni metafisiche che abitano il suo inconscio. All’interno di questa complessa elaborazione della sua fisionomia espressiva, la metafisica è dunque diventata per Ciro Palumbo un metodo narrativo, che gli consente di rivelare quanto l’impossibile possa diventare possibile. Non è forse questo il desiderio utopico senza risposta che Albert Camus testimoniava nel suo Caligola? Ciro Palumbo risponde col sorriso dell’ospite che scende dal cielo a proteggere l’Enigma Sognato, e per soccorrere il poeta che disegna e colora.
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